Pubblichiamo il racconto risultato terzo classificato al concorso “Novella bormina” bandito dal giornale “Il Corriere della Valtellina” nel settembre 1948.
OMBRE NELLA VALLE, racconto di Dorio Fava
Questa è accaduta a me, Toni de Legur, quand’ero pastore in Fraele assai prima che venissero uomini e macchine a trasformare il laghetto di Cancano in una grande vasca, che loro chiamano e diga e irretissero la montagna di fili e di pali, scavassero strade nella roccia, facessero brillare mine, uccidendo così il silenzio che da tanti innumerevoli anni, abitava nella mia valle verdissima. Io non sono più ritornato là, perché mi morde il cuore, solo al pensare alle piccole case sepolte nell’acqua, ai bei pascoli grassi annegati, ai mughi che forse svettano neri sulle onde. E poi anche la mia Virginia è ormai morta e quando voglio andare a trovarla, il comitero è là, solitario, che aspetta senza fretta; la sua croce anche se torta dal vento, la riconosco tra l’altre. Son certo che la mia preghiera biascicata e lenta le giungerà gradita, come le era un tempo il mio giovane canto notturno. Ma allora era un’altra cosa, le mie gambe non tremavano come l’erba matura e il bastone l’usavo solo per spronare le bestie restie.
Insomma avvenne, che quella sera ero sceso a Premadio a far la presa, e m’ero fermato un po’ da Bepi. Forse avevo anche bevuto un goccio, ma come fa “santo Dio” a rifiutare un sorso da gudaz, e poi quando è tutto pagato! Così, un calice dietro l’altro, s’era fatta la notte, ed era arrivato quel mattacchione di Gervasin a farci ridere. A star così a contarla su non ci accorgevamo dell’re che passavano. Forse un po’ pel vino, un po’ pel sonno, la testa mi dondolava e gli occhi si chiudevano da soli e a malapena riuscivo a cogliere tra uno sbadiglio e l’altro le parole del Bepi che raccontava. Lui, di storie ne sapeva tante e vecchie, e poi era stato anche a Tirano a fare il soldato, e lì gli avevano insegnato a leggere, scrivere e far di conto. Bepi, ci diceva, ch’aveva sentito dire dal suo nonno di un pastore affogato nel lago e che, nelle notti di burrasca o di tormenta, su in Fraele si sentiva come un ciondolio di campani e pareva che una mandria impazzita corresse nella valle. Più d’uni aveva non solo visto le mucche fuggire ma anche un pastore che le rincorreva. E in esso avevano ravvisato il povero annegato. Ma son tutte Balle, concludeva, belle e buone, da raccontarsi a veglia. Quando uscimmo, la mezzanotte era suonata da un pezzo, mi trovai immerso nell’ombra pensando che avrei dovuto essere su nella mia cuccia tra il fieno. Un vento freddo alitava la valle, scomponendo i capelli ribelli e parlando con voce che solo noi montanari possiamo capire. Era quasi un invito. Mi caricai del gerlo e Gervasin m’accompagnò per un tratto, giacché abitava a Torripiano. Per strada qualche goccia si fece udire battendo, grossa, sulla polvere, spandendo attorno un odore acre e strano come respiro di vecchio. Gervasin disse: – Fermati con me, andrai domani di buon’ora, altrimenti prendi un’acquata.
Un po’ sul serio, un po’ per non farmi vedere pauroso, scossi le spalle: – Macché! Buona notte.
– Allora ciao – mi rispose – e, attento al pastore! – Dopodiché sentii tirare la spranga, udii il portone chiudersi. Poi, più nulla…
Ripresi a salire lento, con il carico fermo sulle spalle, mentre le gocce continuavano a tambureggiare sul terreno e là, verso Viola, le cime si schiarivano nei lampi. Ma chissà perché, quella notte, ogni ombra mi pareva un uomo fermo che aspettasse. Per farmi coraggio, cominciai a fischiare una vecchia canzone di alpini pensando alla bella Virginia, che sola, lassù, sul monte mi attendeva, forse arrabbiata per il ritorno inconsueto. La notte si portò avida il fischio. Proprio sotto le torri, il vento si fece rabbioso, sibilando tra i pini inginocchiati, e la pioggia infittì improvvisa, tanto che non riuscivo quasi a tenere il sentiero che mena al passo. Arrancando tra i sassi vi giunsi, ma la tempesta divenne violenta violenta tentando di ricacciarmi addietro e quasi erano più i passi che facevo a ritroso che sulla strada. Ma ero giovane allora, e il pensiero che la Virginia mi potesse vedere sotto l’acqua mi dava forza nuova, e proseguii. Ad un tratto, di tra le folate di vento e gli spruzzi di pioggia, mi parve di udire un suon di campanacci ed una voce. Tesi l’orecchio, nulla. Poi ancora rumori.
– Forse sarà scappata qualche vacca – pensai – e la ricercano, ma un calpestio vicino, simile ad un tremito della terra, chè nel buio mi passarono accanto delle bestie in corsa, spaurite. Stavo chiedendomi di chi fossero, quando mi sentii toccare lieve sulla spalla e qualcuno disse: – Toni, aiutami a riprenderle – Mi parve di udire in quelle parole la voce del mio babbo morto, ma mi detti dello stupido e tra un lampo e l’altro mi misi ad inseguire le mucche mugghianti, sparpagliate sui pascoli vicini. Curioso, guardavo a tratti, quell’uomo laggiù, che s’agitava e che non riuscivo a conoscere. Ma la pioggia era fitta, era notte, e le vacche mi davano da fare.
Cacciammo la mandria dentro il bosco e lì si quietò e i campani si tacquero. Allora la voce dell’ombra mi disse: – Grazie, buona notte, saluta la Virginia. – Così, con quel nome che mi girava nel cervello, passai via la strada, quasi correndo, anche perché avevo furia di cambiare i panni fradici. E la pioggia diminuiva lentamente.
Nel fienile Virginia assonnata e freddolosa, con una coperta asciutta e rattoppata sulle spalle, mi attendeva e mi fregò a lungo sui capelli con le mani buone, brontolandomi ed anche, ormai lo posso dire, regalandomi un bacio. Così m’addormentai che l’alba era vicina e il lago rabbrividiva paonazzo. Ma l’indomani per quanto domandass all’ingiro, non mi riuscì sapere a chi fosse fuggita la mandria, e tutti scuotevano il capo silenziosi. Girai per tutte le cascine della valle senza riuscire a saperne di più. Mi ricordai a un tratto della storia di Bepi. E ripensandoci sopra un po’ tremavo e un po’ ridevo Così rise più tardi, lui e Gervasin, quando li ritrovai dinnanzi a un fiasco e mi presero in giro per gran tempo e lo dissero a tutti; tra una risata e l’altra mi gridavano: – Eri troppo “storno” Toni, quella sera. Vai a raccontarla a un altro.
E non ci fu verso di fargliela capire. Forse, sarò stato un po’ brillo, non lo nego, ma la corsa dietro le vacche, io l’ho fatta! Ve lo posso giurare!
(da Corriere della Valtellina, 27 novembre 1948)