Concorso “Un racconto per lo Stelvio”: i vincitori precedenti

Pubblichiamo il racconto risultato secondo classificato al concorso “Novella bormina” bandito dal giornale “Il Corriere della Valtellina” nel settembre 1948.

DOPO LA TORMENTA, racconto di Pierino Porqueddu

Jean, coi due clienti era ritornato dalla becca dell’Aquila e il custode del rifugio stava ormai per coricarsi. Nella sala, presso la grande pigna, Giulia e Felice ancora si intrattenevano, quasi dimentichi dell’ora tarda. Vi era sul viso di Giulia, pur nel calore di una intima e giocosa conversazione, come un improvviso ripetersi, di impressioni lontane, certo dolorose. In città, dove per lunghi anni, la sua vita era trascorsa felice forse, o almeno senza profonde amarezze, un uomo cercava nel suo lavoro di dimenticare il dolore per l’improvviso abbandono di lei. C’erano i bimbi e la loro tenerezza riusciva talora a farlo sorridere e quasi per tacito accordo, o forse per naturale timore, il nome di lei, della fuggitiva, era bandito da quella casa.

Giulia pensava talora alla città e all’improvviso senso si amarezza era più forte del nuovo amore. Ma domani li attendeva la becca dell’Aquila e soltanto lassù quasi dimenticandosi aveva momenti di dolce abbandono.

Era come se un Dio sconosciuto le stendesse un velo sui ricordi, viveva soltanto in lei l’incanto delle cime nevose e anche quell’altro (Felice non sapeva partecipare ai suoi misteriosi abbandoni e forse stizzito cercava di distinguere le varie cime o, distratto, seguiva il volo di un corvo randagio) anche quell’altro era come dimenticato.

– Pensi sempre a lui –. Felice quasi leggendole il pensiero si era alzato.

– Penso alla montagna, domani saremo lassù ed è ormai tardi. Hai avvisato il custode?

Al mattino quando le cime si intravvedevano incerte nell’alba pascente, la cordata saliva verso l’attacco a passi lenti, ritmati dall’ondeggiare della lanterna.

Poi in parete l’acciaio della picozza aveva improvvisii balenii, il ghiaccio scintillava in mille frantumi ad ogni colpo. Un passo, altro passo, adagio salivano quasi appesi alla montagna. La becca dell’aquila scintillava lassù ai primi raggi del sole: da parecchie ore la picozza incideva i gradini e rimaneva ora un passaggio, pericoloso verso nord.

Jean, la giovane guida, li aveva ammoniti – attenzione al passaggio del tetto: due inglesi sono caduti l’anno scorso. Procedendo adagio e sempre in sicurezza.

Due inglesi sono caduti – pensava Giulia mentre con la picozza mordeva quasi ferocemente il ghiaccio per meglio resistere ad ogni urto. Avanti, il tratto pericoloso era superato, restava l’ultimo tratto di ghiaccio nero, l’ultima fatica e già il sole li accarezzava. L’ultima fatica, ma il Dio della montagna sembrava sorridere: forse solo i puri di cuore possono salire a lui.

Il ghiaccio nero. Felice scalinava rabbioso.

Intorno le cime cominciavano ad apparire, quasi salendo con gli alpinisti,e  dietro si illuminava la valle che la leggera nebbia mattutina chiazzava qua e là. Dak rifugio il custode e qualche solitario alpinista osservavano i due punti neri sulla parete che da lontano sembravano immobili. Poi ad un tratto con un volo improvviso qualcosa scivolò sulla parete: un attimo sembrò arrestarsi per poi precipitare in fondo. Ma qualcosa restava lassù: un punto nero sperduto nel grigio del ghiaccio e il silenzio rendeva straziante l’attesa.

Giulia appesa disperatamente al chiodo di sicurezza guardava ancora in alto e nel suo orecchio rimaneva l’impressione di un urlo doloroso e l’occhio manteneva la visione come di un grande uccello nero in un improvviso volo.

Il viso le sanguinava per l’urto della corda che ferocemente l’aveva percossa. Il sole ormai alto nel cielo illuminava la parete, il rifugio laggiù e il piano nevoso dove la cordata di soccorso procedeva lentamente. Chissà quante ore Giulia rimase appesa: il vento faceva dondolare il moncone della corda spezzata e per lungo temo quel punto nero rimase lassù senza ombra di vita.

Attorno alla cuccetta del rifugio visi sconosciuti e pensierosi di montanari vegliavano l’addormentata: nessun segno di vita era apparso da quando, calatisi con costanza, l’avevano raccolta e soltanto di lei conoscevano un indirizzo di città trovato nella tasca della giacca a vento.

Subito una guida era corsa in paese per avvertire il marito (il signore dell’indirizzo) ed ora attendevano il medico. Dell’altro, che era precipitato in fondo alla parete, tutti avevano ancora negli occhi la visione di un ammasso inerte di carni che pazientemente avevano composto nella saletta del rifugio e che un rustico telo copriva agli sguardi.

Giulia, la sconosciuta signora, aperse lentamente gli occhi e subito li richiuse davanti a quelle facce sconosciute: di nuovo li riaprì e quasi leggendo sul viso di quelli che le erano attorno un’ansia amorosa per lei sorrise fra le bende; poi, come se la debolezza la riprendesse, di nuovo si assopì e così rimase a lungo.

In città la notizia era giunta improvvisa e all’istante fu come se fosse arrivata ina una casa sconosciuta: improvvisamente anche  bimbi ripensarono il nome di lei, della fuggitiva. Poi il babbo partì senza ancor conoscere cosa dovesse fare, soltanto affidando la decisione alle lunghe ore del viaggio.

Dopo il viaggio in ferrovia, la corriera saliva verso la montagna che si tingeva di rosa nel tramonto: nelle valli, dai paesi disseminati nel verde e racchiusi dagli alberi il suono dell’Ave Maria giungeva come l’eco di tanti ricordi. La strada saliva verso le prime nevi e il loro biancore s’incupiva in mezzo alla morena.

Giunse la corriera in paese e Paolo (tale infatti era il nome del marito di Giulia) cercò con gli occhi ansiosi la guida che doveva attenderlo e s’avvicinò ad un giovane che stava caricando dei sacchi sul dorso di un mulo.

Era infatti la guida e poco dopo salivano lungo il torrente inoltrandosi più in alto nella morena e il rifugio s’intravedeva, come diceva la guida in quel chiarore lassù.

Paolo ancora ripensava ai suoi ricordi: tanti anni passati era salito al rifugio, ma allora tutto era più chiaro: il sole alto nel cielo illuminava le vette d’intorno e allegri odel si richiamavano ad ogni curva. La comitiva portava il vivo segno della giovinezza tra le montagne. Il segno della giovinezza, e paolo vedeva scorrergli davanti tutti quegli anni lontani, la figura di Giulia ai tempi felici del loro amore.

– Eccoci al rifugio.

La voce della guida lo sorprese e la dolorosa realtà lo riprendeva davanti a quelle mura annerite, a quei tronchi corrosi dal tempo e dalla bufera: davanti all’immagine di lei che Paolo creava dietro quella finestra illuminata.

Improvvisamente s’accorse d’essere giunto senza perché: nel viaggio solo i ricordi lo avevano accompagnato, i ricordi lo avevano accompagnato, i ricordi e il dolce suono dell’Ave Maria, E si trovò così davanti a lei con l’animo dei tempi lontani (- il nostro amore è nato sulla montagna: non può morire perché abbiamo affidato il segreto a quelle cime-); le guide si erano ritirate e dalla saletta s’udiva la preghiera dei morti.

Ma tutto era lontano, gli anni non erano trascorsi e negli occhi di paolo e della fuggitiva vi era ancora la luce di quel giorno.

Fuori, nel cielo chiaro di stelle, la becca dell’aquila era ancora come tanti anni lontani.

(pubblicato su “Il Corriere della Valtellina” del 20 novembre 1948)

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